Sugli “shrinking spaces”: un documento di inquadramento

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In tutto il mondo, in Paesi democratici e non, molti attivisti e organizzazioni che promuovono la giustizia sociale affrontano una situazione di repressione e securitizzazione con attacchi senza precedenti alla loro legittimità e sicurezza. Dai tentativi di repressione di Black Lives Matters, all’assassinio di Berta Càceres, alla criminalizzazione dei movimenti Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), fino alla nuova micro-tirannia del Voluntary Activities Regulation Act in Bangladesh, l’attivismo collettivo e individuale soffre un attacco globale da parte di Stati, di imprese e dell’estrema destra. L’attuale emergenza ha avuto un lungo periodo di incubazione, solo di recente però le organizzazioni della cosiddetta società civile ne hanno preso consapevolezza e si stanno quindi mobilitando per comprendere e contrastare ciò che viene definito come ‘shrinking space’ o restringimento degli spazi di agibilità e iniziativa civica.  Una metafora questa ampiamente accettata per descrivere una nuova generazione di attività di repressione delle lotte politiche. Lo stesso concetto di spazio ha differenti definizioni a seconda di coloro ai quali ci si rivolge. Alcuni lo intendono come uno spazio limitato all’obiettivo di influenza della politica – una sorta di posto al tavolo della trattativa – mentre altri interpretano il suo significato come uno spazio per organizzare, operare, avere una voce legittimata, protestare e dissentire. La prima accezione tende a depoliticizzare la protesta, mentre la seconda ne accresce il potere. Queste distinzioni riguardo a come lo “spazio’ è concepito modelleranno il tipo di risposta al problema, con implicazioni fondamentali per chi è attivo in quello spazio, e in quali modalità. Nell’aprile 2017, il Transnational Institute ha pubblicato il report “On shrinking space: a framing paper“, a cura di Ben Hayes, Frank Barat, Isabelle Geuskens, Nick Buxton, Fiona Dove, Francesco Martone e Hannah Twomey. Questo documento intende decostruire la narrativa sullo shrinking space spiegandone il significato e sviscerando alcune delle problematiche connesse a tale concetto, ponendo l’accento su chi oggi è maggiormente coinvolto e impattato dallo shrinking space e perché, quali sono le possibili tendenze, come si rapporta ad altri paradigmi dominanti del ventunesimo secolo, e come i movimenti sociali progressisti dovrebbero rispondere. Qui la traduzione in italiano: SHRINKING SPACE – UN DOCUMENTO DI INQUADRAMENTO
  1. Cos’è lo shrinking space?
Il termine shrinking space può essere inteso come un concetto o un quadro di riferimento che definisce la dinamica relazionale tra metodi repressivi ed una lotta politica, includendo le modalità attraverso le quali tale lotta contrasta tali metodi per riappropriarsi del proprio spazio di agibilità, e l’impatto di tali metodi sulle modalità con le quali una lotta politica si relaziona alle altre. Il suo valore come quadro di riferimento è che ci aiuta a riflettere sulla repressione, le sue origini, gli effetti ed i meccanismi con i quali gli attori politici si confrontano. All’interno del discorso sugli ‘shrinking space’ si possono identificare almeno dieci tendenze, spesso correlate, attraverso le quali si restringe lo spazio politico nel quale le organizzazioni della società civile operano:
  • ‘protezione filantropica’, che comprende una serie di vincoli imposti dai governi nazionali alla capacità delle organizzazioni della società civile dei loro paesi per ricevere fondi dall’estero (come riscontrato principalmente in India, Russia, Etiopia ed Egitto, ma ora anche in dozzine di legislazioni nazionali);
  • legislazioni locali che regolano più ampiamente attività no profit (per esempio imponendo imposte di registrazione onerose, obblighi gestionali e di rendicontazione alle ONG ed assicurando agli stati assoluta discrezionalità nel sanzionare organizzazioni a seguito di mancato “ottemperamento”)
  • Politiche e pratiche che impongono restrizioni ai diritti di libertà di assemblea e associazione (ad esempio impedendo o vietando ogni genere di manifestazione, usando le leggi per la sicurezza nazionale al fine di limitare la possibilità di mobilitazioni, reprimere i sindacati, e militarizzando le forze dell’ordine in nome dell’ “ordine pubblico”);
  • la criminalizzazione, stigmatizzazione e delegittimazione dei cosiddetti ‘ Difensori dei diritti Umani (‘Human Rights Defenders’ – HRDs) – termine che comprende tutti gli attori coinvolti nell’azione di pressione non-violenta per i diritti umani e la giustizia sociale – così come la criminalizzazione della solidarietà per i rifugiati;
  • la restrizione di libertà di espressione, in generale così come sui social media, direttamente attraverso la censura e l’intimidazione, ed indirettamente attraverso la “sorveglianza di massa”;
  • intimidazioni e attacchi violenti contro la società civile da parte di forze religiose conservatrici, imprese, formazioni di estrema destra o attori non statuali;
  • la diminuzione di spazio per l’attivismo online dovuta alla repressione e l’intimidazione nei confronti di attivisti, in particolare donne difensore dei diritti umani, per il loro impegno (incluso l’essere oggetto di ricatti, calunnie, molestie e stalking, così come di minacce da soggetti pubblici e privati)
  • la tendenza da parte di donatori privati e pubblici delle organizzazioni della società civile a “prevenire il rischio” o “securitizzare” le proprie attività, al punto da limitare o ritirare finanziamenti a disposizione delle organizzazioni di base e di cause “marginalizzate” (come l’autodeterminazione della Palestina, l’antiterrorismo e i diritti umani) in favore di organizzazioni sempre più grandi e meno politicizzate e a sostegno di tematiche “più sicure” e meno “controverse”;
  • la conquista di spazi tradizionalmente abitati da organizzazioni della società civile da parte di associazioni di gruppi di interesse privato, lobbisti, ONG filo-governative e iniziative legate alla responsabilità sociale di impresa atte a screditare le organizzazioni della società civile;
  • l’esclusione della società civile dai sistemi bancari attraverso misure di antiterrorismo, parte di un fenomeno relativamente nuovo, ma in crescita, nel discorso sugli shrinking spaces.
In pratica, molte di queste tendenze si sovrappongono e procedono in simultanea, il che ne rafforza gli effetti. Ad esempio, il combinato disposto delle crescenti difficoltà d’accesso o la perdita dello stesso ai fondi in conseguenza del proprio impegno su temi controversi, e delle spese per cause legali o per obblighi di rendicontazione più onerosi, potrebbe essere sufficiente a far chiudere l’organizzazione in questione.   2. Spazio per chi? Se tra le caratteristiche principali dello shrinking space intendiamo anche questa nuova ondata di pratiche di repressione delle lotte politiche, allora anche gli attori coinvolti nelle stesse dovranno essere considerati inerenti a tale concetto. Pertanto, per comprendere e valutare l’utilità del concetto di  shrinking space come ambito/discorso, è necessario comprendere  come la ‘società civile’ sia definita in primis. Governi e soggetti filantropico-capitalisti tendono a considerare la società civile secondo una definizione stretta di organizzazioni no profit, think-tanks e ‘imprenditori sociali’ – per escludere tutti gli altri, come movimenti, collettivi informali, movimenti e comunità di base, chi fa azioni dirette, rifugiati e apolidi, popoli indigeni. Una sempre più ampia gamma di attivisti, iniziative e organizzazioni si identifica oggi come ‘società civile’, o perché crede genuinamente di essere parte di una comunità d’interesse comune e di un’azione collettiva per un cambiamento sociale e politico, o per adattarla alle definizioni dei decisori politici e degli enti erogatori. Di conseguenza, la società civile non può essere ridotta a un’entità omogenea e monolitica. Nel riconoscere la pluralità degli attori e la complessità nel definire la società civile, diventa chiaro che in questa complessità esistono sfumature diverse dello shrinking space: lo spazio si restringe non per tutti alla stessa maniera.  Chi s’impegna nell’attivismo nell’ambito di organizzazioni non-governative altamente professionalizzate e sostenute dalla “classe di Davos” ad esempio potrebbe soffrire le conseguenze di un’occasionale crisi di rilevanza, legittimazione o di accesso ai finanziamenti, ma i loro spazi non sembrano essere ridotti. Indubbiamente molte ONG si coalizzano in grandi piattaforme che sempre più diventano partner preferenziali per grandi donatori essendo in grado di rispettare (grazie alle loro dimensioni, struttura burocratica e “brand” affermato) tutte le condizioni poste,  mantenendo un notevole potere di negoziazione. Per contro, quelle comunità sociali di base e quei movimenti con vocazione di giustizia sociale, economica, politica e ambientale sembrano essere le vittime principali della repressione da parte di governi autoritari, attori non-statuali violenti, ed oggi anche da parte di governi democratici che da tempo hanno rinunciato al loro impegno sui diritti umani universali, imitando invece le pratiche repressive di governi autoritari. Perciò quando si valuta lo shrinking space dovremo per lo meno prendere atto che non c’è e non c’è mai stato un singolo spazio in cui tutti partecipano a pari livello. Affermare il contrario è una fantasia liberal-democratica che ignora i fattori politici e le distorsioni delle sfere pubbliche e private, nelle quali differenti attori competono, e nelle quali si aprono e chiudono diversi spazi politici.   3. Perché il concetto può essere problematico? Sotto molti aspetti, il discorso sullo shrinking space è semplicemente una modalità più sfumata e conveniente per parlare dei problemi di esclusione e repressione che molti movimenti sociali, politici e legati ai diritti civili affrontano da molto tempo. Riportandolo all’attualità, questo approccio è una risposta ai nuovi metodi politici, legali e imprenditoriali volti a contenere le attività di attivisti e “campaigners”. Gli effetti del discorso sugli shrinking spaces sono quindi problematici e possono essere dannosi per alcuni segmenti della società civile. Nel collocare le tecniche elencate in precedenza nella doppia accezione di  shrinking space’ e ‘società civile’ si rischia infatti di depoliticizzare ciò che in effetti è una strategia di controllo poliziesco, spostando l’enfasi dalla reale repressione di alcune forme della politica a vantaggio di altre, verso  qualcosa di più accettabile e meno “scomodo”. Inoltre, il concetto tende ad appiattire le differenze tra le lotte dei movimenti sociali e quelle delle grandi ONG, asserendo che tutti gli attori della società civile sperimentano nella stessa maniera ed entità una restrizione dei loro spazi di agibilità nello stesso ordine e grado, continuando altresì a perpetuare l’idea che l’unico posto dove tale spazio si sta restringendo sia il “Sud globale”. Di conseguenza il discorso sugli shrinking spaces è stato integrato nel quadro delle narrative geopolitiche dominanti sullo sviluppo e la filantropia con tutte le criticità che ciò comporta. I governi del “Nord Globale”, per esempio, sono stati capaci di professare sostegno agli ‘spazi civici’ ed alle iniziative dei difensori dei diritti umani nel Sud Globale. Al contempo adottano politiche e sostengono imprese che contribuiscono al restringimento degli spazi di agibilità,  ignorando volontariamente gli abusi perpetrati dai governi  dei paesi terzi e dalle imprese multinazionali. Ciò è stato possibile grazie all’ enfasi eccessiva sulla centralità delle tre libertà chiave del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (International Covenant on Civil and Political Rights, ICCPR), ossia la libertà di associazione, assemblea ed espressione. Così facendo si sono “invisibilizzati” quei fattori, quali genere, razza, orientamento sessuale o età, che limitano in realtà la capacità individuale e collettiva di organizzarsi su talune questioni e di esprimersi, permettendo  ai governi di dare priorità ad alcune tipologie di shrinking space, rispetto ad altre. Inoltre inquadrare repressione e delegittimazione di alcuni settori della società civile in un meccanismo selettivo che può essere facilmente rivolto in una direzione o in un’altra, comporta il rischio di semplificare eccessivamente il problema e di identificare soluzioni erronee, oltre che di cancellare lotte per la giustizia razziale e di genere, se non addirittura di appropriarsene.   4) Una porta si chiude… Il dilemma sullo shrinking space è per sua natura caratterizzato da realtà che in pratica sperimentano null’altro che problemi del “primo mondo”, parlando per conto di quegli attivisti che non hanno mai avuto uno spazio di enunciazione – gruppi la cui esistenza dipende da sempre dalla capacità di conquistarsi uno spazio in un contesto caratterizzato da condizioni tremendamente avverse e dalla repressione. Nella competizione per uno stesso spazio da parte di diversi attori, gli spazi politici vengono continuamente riconfigurati, aperti e chiusi. Il miglior esempio di questa dinamica è offerto dal crescente profilo acquisito dal tema dello shrinking space come dimostrato dalla pletora di iniziative, conferenze e linee di finanziamento ad esso dedicate. In maniera quasi perversa, questi nuovi spazi politici, che offrono alle grandi ONG internazionali professionalizzate maggiori opportunità di azione e mobilitazione, si aprono quando gli spazi politici per attivisti e movimenti sociali si restringono. Questo inquadramento del problema è assai rilevante. Se vogliamo capire, e cosa più importante, rispondere in maniera significativa alla molteplicità di problemi generati dal concetto di shrinking space, allora dovremmo concentrare la nostra attenzione sugli spazi che si stanno chiudendo, per comprendere i perché, chi ne trae vantaggio e come riaprirli. Di conseguenza anche se simbolicamente importanti, soluzioni che si vorrebbero applicare indistintamente a diverse situazioni e circostanze, quali la nuova “Carta Civica”, potrebbero non essere in grado di portare sostegno a quelle organizzazioni e movimenti che affrontano sistematicamente la repressione, l’esclusione o l’annientamento.   5) Shrinking space come “management” politico Un’alternativa all’astrattezza  strutturale propria del discorso sullo shrinking space generano è di considerarli parte di una competizione  più ampia nell’ambito del  neoliberismo contemporaneo per la privatizzazione dello stato, lo svuotamento della democrazia e la riduzione di ogni forma di opposizione attraverso la ridefinizione dei margini d’azione delle attività politiche ed extraparlamentari ritenute legittime, e la riduzione degli spazi di iniziativa politica a spazi “multistakeholder”, dove le organizzazioni della società civile si impegnano in forme di negoziazione con lo stato e le imprese. È da molto tempo chiaro che chi presidia gli spazi politici “mainstream” ha contemporaneamente co-optato e strumentalizzato le organizzazioni chiave della società civile, spingendo al contempo gli attori critici e radicali della società civile in una sfera d’ ombra fatta di delegittimazione, persecuzioni, denunce e controllo eccessivo, con lo scopo preciso di contrastarne la visibilità. Questo si riflette quotidianamente nell’esclusione di molti attivisti politici e movimenti sociali da ogni dibattito sulla o con la “società civile”. Le tecniche di repressione descritte in precedenza necessitano di un profondo processo di delegittimazione che permetta ai “governanti illuminati” di affermare e proteggere la libertà di taluni settori della società civile all’interno delle loro frontiere, mentre gestiscono e ridefiniscono la società civile dall’alto e secondo le loro modalità. Quest’ uso dello ‘shrinking space’ come strumento politico è una classica strategia di  divide et impera , che mette l’una contro l’altra diverse forme alla società civile organizzata, ed allo stesso tempo tenta di rompere i legami di solidarietà tra le lotte per i diritti fondamentali a e la giustizia sociale.  
  1. Gradi di separazione
In termini di shrinking space, la differenza attuale tra le democrazie liberali e gli stati autoritari non è una quella di una libertà senza limiti nel primo caso e un’assoluta restrizione nel secondo, piuttosto è la misura in cui i vari vincoli, sopra individuati, vengono imposti alla società civile e contro chi gli stessi vengono applicati. Le differenze fondamentali si riscontrano nell’entità delle giustificazioni addotte per contrarre le libertà, e nel livello di protezione necessario per i gruppi e gli individui dagli atti di violenza statale che la legge prevede, ad esempio per quanto riguarda l’aggressione fisica, l’esecuzione extragiudiziale e la tortura di attivisti e difensori. Anche in questo caso però i confini sono costantemente sfocati dall’introduzione di tecniche più sottili di repressione, come ad esempio l’uso di “armi meno letali” e tattiche di polizia come il “kettling”. Anche nei paesi in cui nuove e restrittive leggi sulla società civile hanno suscitato grande preoccupazione – per esempio in India e Israele – non è la società civile ampiamente intesa ad essere colpita, bensì le organizzazioni della società civile che perseguono particolari finalità e obiettivi. Solo dove la società civile soffre un totale assoggettamento alla legge, ad esempio in Egitto e Russia, possiamo scorgere qualcosa che si avvicina a una forma apolitica di “shrinking space “. Altrove, e senza eccezione, gli strumenti di “shrinking space ” nella cassetta degli attrezzi dei governi vengono utilizzati appositamente per fini politici. Ad esempio, le restrizioni nell’accesso a finanziamenti esteri producono una vera e propria crisi di legittimità per organizzazioni per la democrazia e basate sui diritti che ricevono fondi da parte di donatori occidentali in molte parti del mondo. Queste misure vengono sfruttate spietatamente dai politici populisti che hanno colto l’opportunità per portare alla bancarotta quelle organizzazioni della società civile considerate come oppositori politici, mentre altri attori e programmi non controversi continuano a godere di finanziamenti dall’estero. Consideriamo inoltre la varietà di leggi nazionali che regolano il settore senza scopo di lucro, la cui vera ragione d’essere è tracciare una linea tra organizzazioni accettate e quindi intese come legittime e quelle le cui attività potrebbero essere messe in discussione e di conseguenza limitate. Gli attacchi alla libertà di espressione e di associazione operano in modo molto simile e sono invariabilmente giustificati dal fatto che alcune attività politiche possono essere legittimamente ridotte dallo Stato, a seconda della situazione, con il pretesto della “protezione dell’interesse pubblico”, della “coesione sociale”, della “sicurezza nazionale” o della “lotta al terrorismo”. La sorveglianza e la censura online sono basate sull’affermazione che questi gruppi specifici hanno obiettivi illegittimi o illegali. Anche la recente ondata di chiusure di conti bancari di varie organizzazioni della società civile e di blocchi di operazioni finanziarie si basa sull’argomento della legittimità, ed in parallelo le istituzioni finanziarie dichiarano che le organizzazioni interessate non hanno “propensione al rischio”, continuando però a fornire servizi finanziari agli attori “legittimi”. In ultima analisi, anche le conversazioni sullo “shrinking space” si riducono a chi e cosa è incluso – e quindi da considerarsi legittimo – e chi e cosa viene escluso.  
  1. Parlando di Rivoluzione
Le teorie marxiste sullo Stato ritengono che l’apparato statale repressivo e quello ideologico lavorino congiuntamente per reprimere qualsiasi minaccia all’ordine egemonico, dapprima attraverso forme benevole di repressione sociale che coinvolgono la gestione dei comportamenti e delle norme individuali e collettive, e poi attraverso interventi sempre più violenti. Eppure, nonostante appaiano più rilevanti che mai, egemonia, repressione e ideologia sono tutte nozioni assolutamente assenti dai dibattiti sullo “shrinking space“. A loro posto troviamo una esplicita preoccupazione per la “democratizzazione” e “securitizzazione”. Nel primo caso si intende difendere la legittimità della società civile di fronte a uno spazio di restringimento, nel secondo si tenta di criticare la direzione intrapresa dalle pratiche e dalle politiche statuali con riferimento alla cultura (un’idea di sicurezza basata su una politica del terrore) piuttosto che all’ideologia (la convinzione di una presunta superiorità) Tuttavia, solo riconoscendo e connettendo i due concetti di democratizzazione e “securitizzazione” ci si avvicina a qualcosa di simile a una teoria dello “ shrinking space “, laddove il concetto di “securitizzazione” è basato su un approccio “net-war” che include (tra gli altri) alcuni gruppi della società civile in un continuum che comprende movimenti sociali, attivisti politici, gruppi di resistenza e organizzazioni terroristiche, raggiungendo un livello  che oggi minaccia lo sviluppo o la pratica della democrazia. Questa però non è affatto la visione dominante di “shrinking space “; né spiega la disomogeneità del suo sviluppo ed impatto.  
  1. Il business della società civile
 Per capire cosa è lo ‘’shrinking space’’ dovremmo anche considerare le varie tendenze all’interno del settore ‘’società civile’’. Nel 2003, la Fondazione Heritage assieme ad altri iniziò a scrivere sul  ‘’complesso industriale del non-profit’’ e sulla ‘’crescita del potere dei pochi non eletti’’. Sicuramente lo scopo era quello di delegittimare la società civile a difesa dell’amministrazione Bush, del libero mercato e del profitto aziendale illimitato. Lo stesso dicasi per la critica dura a morire del ‘’ complesso industriale del non-profit’’. La mercantilizzazione dell’attivismo dell’ONG; il modello controproducente di business talvolta imposto al settore che favorisce la concorrenza rispetto alla  cooperazione ed alla solidarietà tra la società civile; il focus sul singolo piuttosto che sulla lotta (ad esempio  il discorso sui ‘’difensori dei diritti umani’’; l’idea dei campioni della società civile; parlare di “donne e ragazze” in sostituzione dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere ecc.); la trasformazione delle lotte popolari in rapporti tra finanziatori e beneficiari; le strutture di governo e l’approccio securitario di alcuni donatori – tutto ciò ha diviso la società civile ampliando lo spazio per alcune attività e limitando radicalmente lo spazio per  altre. Noi dovremmo certamente essere consapevoli rispetto a quali siano gli interessi che agevoliamo quando riflettiamo sulle carenze della società civile, ma dovremmo sempre ricordare che la maggior parte dei cambiamenti politici e sociali degli ultimi cento anni, come la lotta contro lo sfruttamento, l’oppressione e per l’emancipazione, non sono venute dalle iniziative di sviluppo e filantropia,  ma da movimenti di base, da persone autorganizzate collettivamente che hanno mobilitato le loro comunità per affermare o rivendicare i diritti.  
  1. La crisi della solidarietà
 Se i tentativi di definire “società civile” organizzazioni legittime “professionalizzate” sono sempre stati accompagnati da movimenti deliberati per escludere determinate voci e de-legittimare altre forme di attivismo politico, allora il non aver confutato tali definizioni ed il non aver resistito ad avere relazioni di comodo createsi laddove le grandi ONG cercando di smarcarsi da gruppi più piccoli di attivisti dovrebbe essere considerato come parte del problema.  Questo perché la mancanza di solidarietà con quei singoli attivisti e con quelle campagne politiche oggetto di demonizzazione e criminalizzazione e un crescente distacco tra gli interessi di molte ONG tradizionali e le vittime di queste tattiche sembrano aver contribuito realmente ad una riduzione dello spazio di azione. Piuttosto che concentrare semplicemente l’attenzione su chi ha potere per capire e contrastare lo shrinking space,  dovremmo piuttosto  ascoltare le voci e osservare le esperienze di coloro che si trovano ai margini  ed il cui spazio politico è ovviamente e radicalmente limitato. Dovremmo osservare, ad esempio, quello che sta succedendo al movimento Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), nato nel luglio 2005 ad opera della società civile palestinese. Indipendentemente da cosa si pensi del valore o delle motivazioni della campagna o del suo più ampio contesto, la legalità e la legittimità democratica del BDS come strategia non-violenta per operare un cambiamento sono incontestabili. Eppure, in gran parte del mondo democratico stiamo assistendo a tentativi palesi e continui volti a delegittimare e criminalizzare il BDS. Alcuni di questi tentativi sono falliti a causa della tenacia e della capacità di resistenza ed adattamento alla situazione. Ne consegue che se vogliamo contrastare la criminalizzazione della società civile in altre aree, dovremmo cercare di comprendere e capitalizzare su questi successi. In altre parole, non dovremmo solo porre attenzione a come lo spazio si stia “restringendo”, ma come questo spazio sia difeso e da chi. Nel farlo, dovremmo guardare alla difficile situazione e alla dura reazione della estrema destra nei confronti del Black Lives Matter, un movimento completamente legittimo contro le forze di polizia istituzionalmente razziste, fronteggiato da queste con pratiche di securitizzazione, militarizzazione  e de-legittimazione. Dovremmo esaminare ciò che sta accadendo sotto l’attuale “stato di emergenza“ alle comunità musulmane a lungo demonizzate in Francia dopo le azioni terroristiche dello Stato Islamico  e il trattamento riservato a coloro che alzano la loro voce contro la svolta fascista della “laicità”. Dovremmo guardare al movimento globale per l’uguaglianza di genere, sempre più schiacciato tra  forze conservatrici ed estremiste da un lato,  e il paternalismo dei regolamenti della società civile dall’altro. Dovremmo osservare la criminalizzazione degli attivisti ambientalisti in tutto il mondo i quali sostengono che l’accordo di Parigi sul clima è inutile senza un’azione radicale contro l’estrattivismo e il destino di comunità indigene e non comunque lasciate ai margini,  obbligate a lasciare spazio allo ‘sviluppo’. E dovremmo guardare alla sorte dei nostri più famosi informatori (o gole profonde in inglese “whistleblowers”) e di chi si batte per una ” trasparenza radicale”. È solo dall’esame di questi fatti che possiamo costruire un discorso coerente e alternativo sullo shrinking space e fornire strumenti di resistenza a coloro che ne hanno più bisogno.  
  1. Pacificazione, fascismo crescente e oltre
Tragicamente la mancata resistenza alla criminalizzazione ed alla demonizzazione delle cause che attaccano al cuore il potere costituito e molte altre forme di attivismo politico, assolutamente legittime, ha aperto la strada ad un attacco molto più ampio contro singoli attivisti, società civile, sindacati, comunità migranti e movimenti, da parte dei populisti e di demagogie razziste come quelle della risorgente estrema destra. Di conseguenza, accademici, ONG, organizzazioni per lo sviluppo, esperti indipendenti, il “politicamente corretto”, il multiculturalismo e persino la “élite liberale” iniziano a sperimentare quella delegittimazione a cui sono state sempre soggette le frange più marginali e radicali, quelle che continuano a sopportare il peso del nuovo autoritarismo. Se dobbiamo affrontare il problema dello shrinking space  e degli effetti sulla società civile, abbiamo quindi bisogno di una risposta migliore che riconosca come questi problemi non possono essere risolti con un’adesione di facciata ai diritti umani o con la promozione di “condizioni favorevoli”. Abbiamo bisogno di comprendere la politica della repressione e il suo rapporto con il neoliberismo, l’autoritarismo, quei bastioni insicuri del potere che provano a riconquistare il controllo, nonché comprendere la crisi economica globale (come la società civile si rapporta ai sistemi di potere, l’1% o il 99%). Dobbiamo definire meglio il problema in un modo che possa informare le battaglie politiche, legali, reali e ideologiche al centro della questione dello shrinking space. Dobbiamo concentrarci su quegli attori che si mobilitano collettivamente, che stanno effettivamente sfidando il potere, e che affrontano le minacce più gravi – e comprendere come il loro spazio si restringa rispetto a coloro i cui spazi aumentano. E dobbiamo farlo in un contesto che riconosce che gli attivisti, e i più ampi movimenti sociali di cui fanno parte, vivono diversi livelli di oppressione e di violenza proprio a causa delle loro particolari identità e delle lotte più ampie che rappresentano, come ad esempio la lotta contro la supremazia bianca o la violenza della misoginia. Dobbiamo anche iniziare a considerare che il concetto di  “società civile” non sia la lente appropriata attraverso la quale esaminare più in generale la repressione dei movimenti sociali e che la ”securitizzazione” strumentalizza le organizzazioni della società civile al punto che un giorno queste potrebbero chiudere la porta agli spazi dove il vero cambiamento avviene. Dobbiamo mettere al centro della battaglia la complicità dei governi e delle corporazioni, non lasciando che affermino di sostenere la società civile e i difensori dei diritti umani mentre li reprimono palesemente in casa; o utilizzandoli per tentare di apparire impegnati nell’ attivismo della società civile sul campo. Soprattutto abbiamo bisogno di riscoprire una vera e propria solidarietà che risvegli il principio che l’ingiustizia ovunque avvenga è una minaccia alla giustizia, e che dia visibilità a coloro le cui lotte sono state represse a discapito – in ultima istanza – di tutti noi.